
C'è stato un momento, durante un karaoke, in cui una persona in particolare che ha cantato mi ha colpito. Lo ha fatto con passione, con intensità, con un’emozione evidente.
Ma a un certo punto, nelle parti alte della canzone, la voce si è abbassata.
Non per mancanza di fiato, forse per un problema alla gola, forse solo per stanchezza. Una piccola imperfezione.
Finito il pezzo, uscendo dal locale, una signora si è avvicinata e ha detto:
«Mi ha emozionato. È questo che conta.»
Non ha parlato dell’intonazione, né della tecnica. Non ha detto “bravo ma”.
Ha sentito qualcosa. Ed è questo che vale.
Viviamo in un mondo ossessionato dalla perfezione: tutto deve funzionare, tutto deve essere all’altezza, tutto deve seguire un protocollo.
Ma la vita vera vibra nelle crepe, nelle fratture, in quei momenti in cui qualcosa si rompe e da lì — proprio da lì — passa l’autenticità.
Anche costruire qualcosa di imperfetto con le proprie mani — come quel carretto storto visto in strada qualche giorno fa — può toccare profondamente.
La bellezza non sta nel risultato perfetto, ma nei segni umani che ogni creazione porta con sé .
Nel tempo che ci abbiamo messo.
Nel significato che ci abbiamo messo.
L’imperfezione contiene vita, perché contiene verità.
E allora, quando la voce si abbassa, o un oggetto non è “fatto bene”, o un gesto non è perfetto, può comunque — se è vero — emozionare.
Può raggiungere chi guarda o ascolta.
Può toccare il cuore.
E questo vale mille volte più di un’esecuzione impeccabile ma vuota.
Perché è lì che si misura la bellezza vera: quando, anche solo una persona, riceve quello che volevi trasmettere. Anche se il mezzo è imperfetto. Questa verità va oltre la musica. Vale per tutto ciò che creiamo: un gesto, un oggetto, un discorso, un progetto. Conta la sostanza, non la forma. Conta l’intenzione e la presenza, non la performance.
E poi c’è un altro punto — forse il più importante: la sensibilità.
È lei a mancare oggi.
Viviamo in un tempo pieno di giudici: chi decide se sei intonato, se sei stonato, se hai fatto “bene” o “male”.
Ma quanti, veramente, emozionano?
Non bisognerebbe temere l’imperfezione.
Non bisognerebbe vergognarsi se qualcosa “non viene bene”.
Perché la verità emozionale passa comunque, se è autentica.
Bisognerebbe cavalcala e portala avanti con orgoglio.
E chi ha orecchie per sentire, la sentirà.